Percezioni Urbane

Possa ogni onda del mare portare
un viaggiatore,
Possa ogni nuova terra essere
un rifugio per i piedi stanchi.
— Walt Whitman, da Leaves of Grass

Massimo Vignelli , Mappa Metropolitana di New York, 1972

Harry Beck, Metropolitana di Londra. 1908

Harry Beck, Metropolitana di Londra con linee 45°. 1931

dal libro History of Information Graphics, Tashen
Dalle carte del cosmo e dall'Uomo Vitruviano di Da Vinci fino alla mappa della metropolitana di New York questo libro ripercorre la storia dei dati visivi dal Medioevo all'era digitale attraverso circa 400 pietre miliari dell'infografica in campo tecnologico, cartografico, zoologico e altro ancora

L’atlante dei pregudizi, Yanko Tsvetkov

Infografica della seconda guerra mondiale, Jean LopezNicolas AubinVincent BernardNicolas Guillerat, Ippocampo

UN PO’ DI COSE RANDOM

  1. Questo è un articolo di Rivista Studio sulle infografiche
    più belle dell’ultimo decennio

  2. Questo è un video dove Stefano Mancuso discute il rapporto tra ambiente urbano e mondo vegetale, sottolineando come l'integrazione del verde possa contribuire a città più sostenibili e vivibili.

  3. Kate McLean Designer e artista che crea mappe sensoriali, utilizzando infografiche per rappresentare esperienze legate al territorio, come i profumi di una città o la percezione sensoriale di uno spazio urbano.

  4. Questa è una mappa interattiva che traccia i percorsi di animali marini come tartarughe, delfini e squali.

  5. Un Tedex su Franz Kahn, designer tedesco, uno dei padri dell’infografica.

  6. Questo è il passaporto Svizzero di nuova generazione,
    il progetto è di Retinaa.ch ed è bellissimo.

INTERVISTA A NAUSICAA PEZZONI

〰️

INTERVISTA A NAUSICAA PEZZONI 〰️

©NausicaPezzoni, Mappa dell’accoglienza e della cura, città di Savona

Contenuta in “La Città Sradicata” pag. 169, mappa n. 19, autore Florjan M., 21 anni, Albania, tempo di permanenza a Milano 25 giorni

Contenuta in “La Città Sradicata” pag. 309, mappa n. 87, autore Mamadou, 25 anni, Mali, tempo di permanenza a Bologna 11 mesi

Conosciamo tutti New York, anche se non ci siamo mai stati. È lo sfondo di moltissimi film e serie televisive, è un’icona architettonica maestosa, ha influenzato scrittori (Paul Auster le ha dedicato due libri bellissimi: Cronache di New York e Follie di Brooklyn), registi (Woody Allen l’ha eletta a musa per i suoi film), è la Mecca per l'arte, la musica, il teatro e la cultura in generale. Broadway è il cuore pulsante del teatro americano che attira spettatori da tutto il mondo. Il logo "I <3 New York" di Milton Glaser è diventato un'icona globale e rappresenta l'amore e l'orgoglio per la città, e chiunque l’abbia visto almeno una volta stampato su una maglietta o sui pantaloncini super corti di qualche ragazza dalle gambe lunghe lo sa bene.

La griglia stradale di Manhattan, con le sue street e avenue regolari, è spesso vista come un modello di ordine urbano, e la mappa della metropolitana progettata da Massimo Vignelli, con la sua estetica pulita e funzionale, l’ha resa un'icona del design grafico.

Queste sono tutte cose che sapete e che, quando ho messo il piede nella grande mela,
sapevo anche io. Ma la percezione che ho avuto della città, camminandoci dentro
e vivendola per qualche giorno, è stata diversa da quella che mi aspettavo.

Precisiamo velocemente una cosa: abbiamo già parlato di percezione visiva nella 3ª puntata di POLLINE, vi ricordate? La percezione è il processo attraverso il quale interpretiamo e comprendiamo le informazioni sensoriali provenienti dal nostro ambiente. È il modo in cui i nostri sensi - vista, udito, tatto, gusto e olfatto - raccolgono dati dal mondo esterno e il cervello li elabora per creare un'esperienza conscia.

Uno dei libri più importanti sulla percezione visiva è Art and Visual Perception: A Psychology of the Creative Eye, scritto da Rudolf Arnheim nel 1954. Arnheim, psicologo dell'arte e teorico visivo, esplora come l'arte e la percezione visiva siano strettamente legate attraverso principi psicologici. Il principio centrale del libro è che la percezione visiva non è solo una ricezione passiva di immagini, ma un processo attivo in cui il cervello interpreta e organizza le informazioni visive. Arnheim sostiene che la percezione è governata dalle leggi della Gestalt, una teoria psicologica che descrive come le persone tendano a organizzare le percezioni in forme coerenti e significative. Arnheim applica queste idee all'arte, argomentando come gli artisti utilizzino consapevolmente o inconsapevolmente principi percettivi per creare equilibrio, movimento e profondità nelle loro opere.

La percezione che abbiamo del mondo, dunque, è influenzata dalla nostra cultura, dalla nostra altezza, dal genere, dal colore dei capelli, dal peso, dalle abitudini. Da ciò che abbiamo studiato, da ciò che amiamo. Dalla nostra storia familiare, dalle persone che incontriamo, da cosa ci porta in un posto.

Mentre ero sull’aereo per New York, leggevo il libro La Città sradicata di Nausicaa Pezzoni, architetta urbanista per la città di Milano e professoressa al Politecnico di Milano. Il libro tratta l’idea della città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro, dove “altro” in questo caso è il migrante. Nausicaa l’ho incontrata al compleanno di un’amica in comune. Non avrei dovuto essere lì quella sera, ma a visitare Sarajevo con un’altra amica. Nausicaa mi chiese come mai avrei voluto visitare proprio Sarajevo, le risposi che mi interessava vedere come la città si fosse ripresa dopo la guerra. Mi interessava vedere la resilienza nei palazzi, nella cultura e per le strade. Abbiamo cominciato a parlare di città, di struttura urbana e ovviamente di percezione dello spazio.

Le mappe delle città possono variare notevolmente nel loro design a seconda dello scopo, del livello di dettaglio richiesto e del contesto in cui vengono utilizzate. Tuttavia, ci sono alcuni stili e principi comuni che caratterizzano la progettazione delle mappe urbane. Le mappe topografiche, ad esempio, segnano strade, edifici, marciapiedi, corsi d’acqua. Le mappe turistiche evidenziano i punti di interesse per i turisti, come ristoranti, musei, le attrazioni culturali di una città. Le mappe tematiche e quelle schematiche o infografiche territoriali semplificano la realtà per rendere più chiara la navigazione all’utente; queste sono per lo più progettate dai designer.

Harry Beck è uno dei designer più influenti nel campo delle infografiche e della cartografia, noto soprattutto per la sua mappa della metropolitana di Londra (1931). Beck ha rivoluzionato il modo in cui pensiamo alla rappresentazione di reti complesse. La sua mappa ha rinunciato a una rappresentazione precisa del territorio e ha invece adottato una rappresentazione schematica, con linee rette e angoli a 45 gradi, per rendere le informazioni più comprensibili e facili da seguire. La sua innovazione ha avuto un enorme impatto sul design di mappe e infografiche e ha ispirato numerosi designer contemporanei a pensare in modo diverso alla rappresentazione visiva delle informazioni spaziali. Lo stesso Vignelli, per progettare la mappa della metropolitana di New York, si è ispirato al lavoro di Beck, come molti altri designer e studi moderni.

Nella progettazione, l’approccio del design all’infografica si concentra sull’utilizzo di simboli, colori e forme studiate per essere facilmente decodificabili dal target d’interesse. Poi si passa allo sviluppo di uno storytelling visivo, ovvero creare narrazioni grafiche che colleghino i dati spaziali per garantire chiarezza e impatto visivo. Si ricerca la bellezza e l’equilibrio, come in ogni composizione visiva, e per farlo si scelgono tipografia, layout grafico e una palette cromatica per evidenziare i dati specifici e migliorarne la leggibilità. Essendo una designer, mi sono molto interrogata sull’uso della percezione dello spazio rispetto alla costruzione di un’infografica efficace. Ancora di più dopo aver letto La Città sradicate. Perché, come sappiamo, la percezione delle cose è soggettiva e direttamente influenzata dalla nostra vita. Dunque, nonostante abbiamo dei dati da tradurre, quando progettiamo un’infografica, entra in atto una selezione influenzata dalla nostra percezione. La tecnica, dunque, consapevolmente o inconsapevolmente, si mescola alla nostra vita.

Un ottimo esempio è il libro Atlante dei pregiudizi di Yanko Tsvetkov, in cui l’autore esplora come le percezioni culturali e i pregiudizi influenzino la visione che le persone hanno del mondo. Il libro è una raccolta di mappe satiriche che rappresentano i pregiudizi culturali, politici e sociali verso varie nazionalità e gruppi etnici. Utilizzando infografiche e mappe, Tsvetkov mostra con umorismo e sarcasmo come un paese o una cultura percepisca gli altri, mettendo in evidenza pregiudizi comuni, paure e atteggiamenti spesso irrazionali. Yanko Tsvetkov, designer grafico e cartografo bulgaro, adotta uno stile visivo semplice ma efficace, trasformando le sue mappe in potenti strumenti di critica sociale. Il libro sfida i lettori a riflettere sui propri pregiudizi e sulle percezioni culturali, stimolando il dibattito su temi complessi come razzismo, xenofobia e geopolitica. Il mix di umorismo e dati visivi rende il libro accessibile e coinvolgente, offrendo una riflessione critica sulla visione del mondo.

Nel libro Invisibili, invece, Caroline Criado Perez parla di come la progettazione urbana sia spesso basata su un modello maschile, trascurando le esigenze delle donne. In uno dei capitoli principali, Perez analizza come la sicurezza e il comfort femminile siano spesso ignorati nella pianificazione delle città. Utilizzando studi e dati, l'autrice mostra come la disposizione delle strade, l'illuminazione pubblica e i trasporti siano progettati secondo modelli di viaggio tipicamente maschili. Un esempio riguarda le linee dei trasporti pubblici: le donne tendono ad avere percorsi più complessi, con fermate per accompagnare i figli, fare la spesa o svolgere altri compiti di cura, mentre la rete è spesso progettata per percorsi più lineari, come spostamenti diretti casa-lavoro. Perez evidenzia anche il problema della scarsa illuminazione urbana: il buio è lo scenario ideale per violenze o aggressioni e le zone poco illuminate, come parcheggi, passaggi pedonali e parchi, limitano la libertà di movimento, soprattutto di notte, solo per la metà della popolazione di una città.

Proprio l’altra sera, seduta al tavolo con quattro amici uomini, parlavamo del nuovo codice della strada e di come la sera non prendessero più la macchina ma spesso tornassero a casa a piedi. Hanno portato l’attenzione sul fatto che era bello passeggiare per la città di notte. Ho pensato che io non potessi farlo con la stessa spensieratezza. Quando mi è capitato di fare dei percorsi lunghi di notte per tornare a casa, ho passato tutto il tragitto con il cellulare all’orecchio, facendo finta di parlare con qualcuno, avevo le chiavi di casa strette in mano, in modo che potessero diventare un'arma all’occorrenza, lo sguardo basso e la camminata veloce. Quando si è in due, si è più rilassate, ma la verità è che si controlla tutto.

In La Città Sradicata, il disegno e la percezione della città da parte dei migranti diventa uno studio da cui si possono ricavare dati per ridisegnare gli spazi, le città e i confini. Dove si identificano i bisogni delle persone che sono diverse da chi nella città ci è cresciuto e nato ed è radicato, persone che però ora vivono nelle stesse strade, piazze, parchi, che hanno un impatto politico e sociale, ma che non vengono prese in considerazione. Si evidenziano i problemi di un’Europa restia ad accogliere le popolazioni che premono sui confini, concentrata più a difendere il territorio piuttosto che lasciarsi influenzare. Il libro è strutturato sul movimento, che diventa una chiave di lettura per decodificare la città contemporanea, descrivendone l’instabilità e lo sradicamento. I migranti, cento per l’esattezza, disegnano la loro personalissima mappa delle città di Milano, Bologna e Rovereto. Il punto di vista cambia radicalmente, la città si ridimensiona, cambia forma, diventa altro. Mi ha colpito molto il passaggio in cui l’autrice descrive come il racconto del passato influenzasse la persona nel disegnare la mappa della città. Il migrante, se raccontava la sua storia o la sua città natale, se gli si chiedeva di "voltarsi indietro", perdeva la capacità di volgere lo sguardo davanti a sé e rappresentare la sua contemporaneità. Si è reso necessario lasciare un vuoto, lasciare alla persona la possibilità di immaginare una realtà non ancora pensata, libera dalle necessità che l’hanno spinto a spostarsi, dalle sofferenze del lasciare un posto per andare in un altro, limitandosi a raccontare il legame che si stava formando con questa nuova città.

Camminando nella grande mela, i grattacieli che sembrano venirti addosso, la vastità, l’eccesso, prima mi hanno stordita, poi ammaliata e infine respinta. Ciò che cercavo erano piccole realtà, movimenti dal basso. Cercavo arte, artigianato, persone che si organizzano per costruire uno strato culturale alternativo all’offerta gigantesca e mainstream. Volevo nutrirmi di ciò che ha respirato Basquiat o Haring. Cogliere il guizzo di una cultura sub urbana, underground. Ma non l’ho trovata. Forse non sono stata nei posti giusti, o forse ho fatto come le falene e sono stata attirata dalle luci abbaglianti per restare incastrata nel plafon della lampada, perdendomi tutta la bellezza della penombra. Non lo so, ma ho riflettuto parecchio sull’impatto visivo che questa città ha avuto su di me, e ho capito che l'opulenza nasconde la mancanza di storia del territorio. Storia che si è cercato di riprodurre portando dei pezzi di Europa, di casa, in un nuovo continente. Ecco che i migranti hanno influenzato e disegnato quartieri interi, cercando di plasmare una nuova casa, cucendo pezzi, disegnando spazi, modificando la percezione della città.


Ciao Nausicaa!
Benvenuta a Talea. Grazie per essere venuta a passeggio nel bosco con noi

1- Per chi non ti conosce, ti va di parlarci un poco di te? 
Sono architetta e urbanista di Città metropolitana di Milano, ricercatrice indipendente, docente di Urban planning al Politecnico di Milano. In collaborazione con il Centro Studi Assenza, da anni conduco la ricerca “I migranti mappano l’Europa” con laboratori di rappresentazione dello spazio urbano da parte di migranti in diverse città d’approdo. Ho scritto articoli su riviste scientifiche nazionali e internazionali sui temi del welfare nella città contemporanea, dell’abitare transitorio, della rappresentazione della città come strumento di relazione con lo spazio abitato. Ho pubblicato il libro “La città sradicata. L’idea di città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro”, O barra O edizioni, 2020 (seconda edizione ampliata).

2- Nel tuo libro La Città Sradicata, affronti la relazione tra l’individuo e lo spazio urbano.
Qual è il significato di “sradicamento” nel contesto delle città moderne e come si riflette sulla percezione dello spazio da parte dei cittadini?
Nel libro ho raccolto 100 mappe di Milano e di altre città d’approdo disegnate da migranti che stanno iniziando a conoscere e ad abitare la città. Queste mappe rappresentano la città contemporanea per come viene osservata e vissuta dalle nuove popolazioni urbane; esprimono la relazione tra una pluralità di individui e lo spazio ma soprattutto spostano il punto di osservazione sulla città, perché introducono un segno estraniante rispetto all’immagine consolidata con cui la conosciamo. Sono infatti disegnate da migranti al primo approdo – gli abitanti più recenti, con lo sguardo più estraneo rispetto al contesto rappresentato – e raccontano un abitare contrassegnato dallo sradicamento. In questo senso i segni che compongono le mappe incidono nel modo di osservare e di pensare la città: svelano il movimento, la discontinuità, il sovvertimento del significato dei luoghi apportato dai migranti. E inducono l’urbanistica ad ampliare il proprio campo d’osservazione, a rinnovare i propri strumenti per meglio relazionarsi con i processi di trasformazione in atto.

3- Come descriveresti l’esperienza di “abitare” una città in cui lo spazio è frammentato e alienante? Quali sono gli effetti di questa frammentazione sulla nostra relazione con l’ambiente urbano? Influisce anche con il rapporto tra le persone?
Nella mia ricerca mi sono occupata dell’abitare più precario, instabile, transitorio, di chi approda su un nuovo territorio senza una rete famigliare che lo accolga. La rappresentazione dei luoghi dell’abitare che ho inserito tra le domande dell’intervista in cui chiedo di disegnare la città, consente di comporre un quadro piuttosto articolato dell’abitare il primo approdo. In particolare, a Milano, emergono sistemazioni diverse, che spesso compongono un avvicendarsi di contesti abitativi eterogenei in cui si legge tutta la difficoltà di ambientamento di volta in volta vissuta: è la sequenza di dormitori o di case in condivisione, dove affiora la costrizione a continui spostamenti, il perdurare dell’instabilità come condizione che appartiene per lungo tempo a tutti i nuovi abitanti di una città.

4- Ci racconti il progetto La Città Sdradicata? Com’è nato e come si è sviluppato? 
Il progetto nasce da un dottorato di ricerca in Governo e Progettazione del territorio al Politecnico di Milano e dalla mia formazione multidisciplinare al Centro Studi Assenza, dove ho imparato a interrogare la città, che è il mio oggetto di studio, osservandola da un punto di vista decentrato rispetto a quello consueto, producendo un’incrinatura, uno scarto, una fessurazione da cui poter guardare un altro livello della realtà, e a utilizzare nuovi linguaggi per decifrarla. La città sradicata nasce anche da un’esigenza molto pratica nella pianificazione territoriale, che è quella di leggere i fenomeni della città contemporanea, di osservare il movimento che la contraddistingue, e includere la dimensione della transitorietà in un’urbanistica che solitamente non la contempla, orientata com’è all’abitare stanziale.

5- Quali osservazioni hai fatto riguardo ai disegni delle mappe tracciate dai migranti? Hai notato delle uguaglianze nei tracciati realizzati da persone dello stesso genere o appartenenti alla stessa etnia?
Dalle mappe emergono città che non conoscevamo. Luoghi che non compaiono sulla cartografia tecnica o che non erano mai stati osservati per il senso che assumono nella vita dei migranti: a Milano la piazza della stazione come luogo di incontro, o uno spiazzo anonimo che diviene moschea all’aperto nella festa di fine Ramadan. Forme inedite dell’abitare danno vita a riferimenti nuovi, spaesanti eppure potenzialmente accoglienti anche per l’abitante radicato che inizia a riconoscerne un altro possibile ruolo. Le mappe riportano elementi che si caricano di significati diversi a seconda di chi li osserva: il circuito del bus 90-91 raffigurato come il percorso più ricorrente nelle traiettorie dei migranti, ma anche come luogo da evitare da chi lo ritiene pericoloso proprio perché frequentato dai migranti. La piazza del Duomo, riferimento principale ma anche luogo inaccessibile da chi non può acquistare i biglietti del tram per raggiungere il centro dallo scalo ferroviario in cui abita. E così a Rovereto si scopre che la montagna è un luogo amato ma irraggiungibile per chi non ha i documenti e non può allontanarsi dal campo profughi, o che il canale che attraversa la città è un luogo temuto perché l’acqua che vi scorre rimanda al ricordo del naufragio a cui i migranti intervistati erano sopravvissuti.

6- Nei disegni di queste mappe, hai notato una particolare attenzione alle aree verdi? Se si da chi in particolare? 
Le aree verdi sono identificate in quanto “disponibili” ad essere abitate liberamente: possono
essere attraversate, occupate dalle persone singole o da una pluralità di individui che vogliano
svolgere attività nello spazio pubblico. I parchi sono luoghi di incontro, ma sono anche luoghi
dove poter stare per le persone che non hanno una casa, per chi vive in strutture d’accoglienza
che chiudono la mattina per riaprire la sera, lasciando i suoi abitanti alla ricerca di spazi che li
accolgano durante la giornata.

7- In generale come viene percepita la città di Milano, da chi ha partecipato al progetto?
Le letture della città restituite dalle mappe ribaltano la struttura storica e urbanistica nonché “rappresentativa” della città: gli spazi del lavoro, le mense, i dormitori diventano centri nevralgici; parchi e biblioteche luoghi del riposo; a Milano la Stazione Centrale, che rappresenta il secondo riferimento in ordine di importanza segnalato sulle mappe, restituisce l’immagine di una città in cui si arriva e da cui si parte, una città che è una porta di ingresso, che accoglie, ma che lascia anche stazionare i nuovi arrivati in un luogo di passaggio, di transitorietà. La Stazione è infatti descritta in molte interviste come primo luogo abitato – all’interno, sulle panchine di attesa, o all’esterno, nei giardini limitrofi, dimora di molte persone in transito – in cui trascorrere la notte per un tempo indefinito.

8 - Io parlo di percezione dello spazio perché nel design la visione è strettamente connessa alla percezione visiva. Come tradurresti questo concetto rispetto al lavoro in La città sradicata?
Ne “La città sradicata” parlo del modo di osservare e pensare la città, quindi non esattamente di percezione ma di una relazione con gli spazi urbani che viene dapprima concettualizzata e poi rappresentata sul foglio attraverso la mappa. Si tratta non tanto di percezione visiva, quanto dei significati, delle interpretazioni, delle attribuzioni di senso, attraverso un gesto poetico, ai luoghi raffigurati.

9- Puoi parlarci del concetto di “spazio domestico” versus “spazio pubblico” e come queste divisioni influiscono sulla percezione di sicurezza e libertà per le donne?
Questa domanda aprirebbe un altro campo di ricerca; sto seguendo sul tema della città di genere delle tesi di laurea magistrale in Architecture and Urban Design al Politecnico di Milano, e vi propongo di rimandare la risposta a quando saranno abbastanza mature le elaborazioni in corso.

10 - Quanto ci siamo incontrate mi hai detto che progettare mappe è un atto politico, mi spieghi perché?
I fenomeni migratori di questi anni hanno portato una parte crescente dell’umanità a una sospensione del diritto di cittadinanza, ossia a un abitare privo di quel “diritto di avere diritti” che è il fondamento della polis: una molteplicità unificata di cittadini che abita – e con pari dignità pianifica – uno spazio condiviso. In questo quadro chiedere ai migranti di disegnare una mappa della città, significa tentare di superare la prerogativa del potere sull’altro che da sempre divide chi appartiene – a un territorio, a un diritto, a un sistema – da chi è escluso. La città svelata dalla mappa è una scoperta sia per l’autore che la disegna sia per chi osserva una nuova città che prende forma dallo sguardo straniero: si produce un piano di parità, davanti a un disegno che parla di un luogo che appartiene a entrambi. C’è in questo processo un riconoscimento del pensiero dell’altro. Dare in mano ai migranti la matita significa ascoltarne il punto di vista senza restringerlo alla dimensione autobiografica a cui spesso la loro voce è ricondotta. Significa recepire la parola dell’altro lasciando spazio a ciò che vorrà dire, nel modo in cui vorrà dirlo. Dal punto di vista del progetto urbano, significa chiedere a chi approda di segnalare le questioni aperte dell’abitare la città e, potenzialmente, di definirne le prospettive di sviluppo: la mappa è un dispositivo progettuale che incide nel disegno al futuro del territorio.

11 - Se dovessi progettare una città ideale, come sarebbe?
Sarebbe una città che prende forma in relazione alle persone che la abitano, dunque aperta a lasciarsi rappresentare – e a farsi conoscere, occupare, attraversare - da chiunque si disponga ad abitarla. Così come nell’intervistare i migranti non chiedo mai la loro storia, a meno che non vogliano raccontarla, ma li “forzo” a pensare alla loro relazione con il territorio attualmente abitato, cioè a produrre un’operazione di riconoscimento e rappresentazione di una realtà già esperita ma ancora da elaborare: così la città ideale è un luogo che non si fissa a una storia consolidata, ma che è pronto ad accogliere chi intenda generare un pensiero su una nuova città, e sentirsene parte. 

12 - Sarebbe interessante estendere questo esercizio di percezione anche alle persone con disabilità. Città come Milano, ad esempio, sono spesso poco accessibili a chi ha difficoltà motorie. Come pensi si potrebbe realizzare una mappa che tenga conto di queste esigenze?
In uno dei laboratori sulle città d’approdo, realizzato a Savona, insieme alle mappe dei migranti ho realizzato uno strumento rivolto agli operatori dei servizi e a chi sia in cerca di luoghi da abitare: una “Mappa dell’accoglienza e della cura” per orientarsi tra spazi, attività, riferimenti in cui trovare accoglienza. Questa mappa rappresenta una cartografia utile agli operatori per indirizzare i migranti, e al tempo stesso costituisce uno strumento di autonomia per chi stia iniziando ad abitare la città, un dispositivo leggibile da tutti, concepito per una popolazione dalle molteplici provenienze geografiche e con diverse competenze linguistiche. Con la stessa logica potrebbe essere realizzata una mappa dell’accessibilità per le persone diversamente abili, dove trovare servizi, spazi, attraversamenti realmente accessibili per chi ha difficoltà motorie e potrebbe raggiungere determinati luoghi con l’ausilio di uno strumento fondamentale di informazione e orientamento come può essere una mappa.

13 - Vuoi lasciarci qualche contatto per seguire il tuo progetto? e dirci quali saranno i prossimi appuntamenti?
La condizione errante sembra contraddistinguere la contemporaneità. Come condizione dei popoli, che drammaticamente lasciano sempre più numerosi le loro terre, e come condizione di esistenza individuale all’interno delle nostre città. I due progetti futuri scaturiscono da qui: il primo è “I migranti mappano l’Europa”, un’esplorazione di tutte le città d’approdo attraverso lo sguardo dei migranti, una proposta che è anche una provocazione per l’Europa affinché possa rappresentarsi con un altro disegno, producendo un’apertura in cui lo sguardo dell’altro possa entrare, e con esso una presenza con diritto di voce sul territorio abitato. Il secondo progetto è “La città dei rider”, nato durante la pandemia, e indaga le trasformazioni innescate da questa nuova popolazione urbana nell’uso degli spazi di Milano e, in prospettiva, di altri contesti geografici, includendo lo sguardo degli stessi rider e la loro rappresentazione della città.


Grazie infinite a Nausicaa per averci accompagnato nel bosco,

Se volete invece approfondire la trovarle qui:
nausica.pezzoni(a)gmail.com ( scambiate la (a) con @, l’ho fatto per evitare la spam, nessuno se la merita)
instagram Nausicaa Pezzoni

Sara Stefanini

Illustratrice e graphic designer

Avanti
Avanti

La Montagna